sabato 24 novembre 2007

SIAMO TUTTI COCAINOMANI

Ci sono delle frasi che, nel leggerle, la faccia assume una smorfia stranissima. Le labbra si distendono e gli zigomi si contraggono, come per una risata. Ma poi, come in automatico, vanno giù il mento e gli angoli della bocca.
Sono quelle frasi involontariamente comiche, per cui uno accenna a ridere, ma poi subito si blocca, ci pensa un secondo e si dice «No, aspetta, questo no: non fa ridere».
A me è successo l'ultima volta leggendo la lettera di «clabaldi72», nella rubrica che Umberto Galimberti tiene sul settimanale D di Repubblica.

La frase incriminata è questa: «Per l'ennesima volta devo mettermi a cercare un lavoro. Mi ritrovo ancora di fronte ai soliti annunci. Gli annunci cercano sempre lo stesso tipo di soggetto: giovane volenteroso, dinamico, ambizioso, determinato, intraprendente, produttivo e con ottima resistenza allo stress. Poi dicono che la gente si droga, che la cocaina è la piaga della società occidentale, quando è evidente che il profilo del lavoratore ideale è quello di un cocainomane».
Ammettetelo, fa ridere anche voi. Perchè è vero! Ma fa anche piangere: perchè è vero.
E aggiungo giusto giusto altri due-tre requisiti le aziende richiedono a chi cerca lavoro: «laurea, inglese fluente, almeno un'altra lingua straniera scritta e parlata, disponibilità agli spostamenti» e magari pure «bella presenza».
Il che andrebbe benissimo, beninteso: se con questo profilo da superuomo/superdonna fossero alla ricerca di un manager da 100mila euro l'anno.
Il tragico (che fa sempre piangere e ridere - ma più piangere) è che con questo profilo la maggior parte delle volte cercano uno stagista. Da pagare 250 euro al mese.

sabato 17 novembre 2007

SOGNANDO MANNHEIMER: SONDAGGI E SONDAGGINI

Ormai sono quasi tre mesi che ho aperto questo blog. Per gioco ho messo online, in tempi diversi, due sondaggi. Chiaramente non hanno alcun valore statistico, ma oggi scrivo due righe per fare il punto sui risultati.
Nel primo sondaggio chiedevo: "Quanti stage hai fatto dopo la laurea?". Il 40% dei partecipanti ha risposto "Più di tre". Se a questa percentuale si somma quella della risposta "tre", vien fuori che quasi la metà dei ragazzi che hanno votato si è dovuta sorbire 3, 4, magari 5 stage all'inizio della vita lavorativa. Solo il 13% ha scelto l'opzione "nessuno".
Nel secondo sondaggio la questione era declinata sul pecuniario: "Quanto sei stato pagato per il tuo stage?". Qui quasi la metà dei partecipanti ha risposto: "nulla". Solo un misero 8% ha scelto l'opzione più alta, "più di 500 euro": che poi, a ben guardare, neanche sono questi gran soldi con cui uno si può mantenere...
Questo purtroppo va a confermare varie teorie. La prima: che oggi quasi tutti i laureati devono passare per la "tappa obbligatoria" dello stage per poter accedere al mondo del lavoro. La seconda: che molto spesso la tappa diventa anche "multipla". Terzo, che i datori di lavoro hanno le braccine belle corte, perchè quasi sempre prevedono rimborsi nulli o simbolici per i loro stagisti. Quarto, che dietro questo piccola legione di stagisti, c'è un esercito di genitori che pagano le spese.
Ora vorrei lanciare un terzo sondaggetto: "Ti è capitato di ottenere un contratto dopo aver fatto uno stage?". Ma temo che i risultati mi deprimerebbero...

domenica 11 novembre 2007

COLLOQUI SURREALI (EPPUR MOLTO REALI)

Ricostruisco due colloqui di lavoro realmente avvenuti. Poi, giudicate voi se viviamo in un Paese normale.

DATORE DI LAVORO # 1: «Bene, quindi lei sarebbe interessato a venire a lavorare per noi»

RAGAZZO (27enne, laureato, brillante, plurilingue etc): «Sì»

DATORE DI LAVORO # 1: «Qui prevediamo un full time con contratto di stage, il rimborso spese è di 250 euro al mese»

RAGAZZO: «Ok»

DATORE DI LAVORO # 1: «Mi scusi ma lei qui a Milano come si manterrà? Il lavoro che le proponiamo non permette di farne altri contemporaneamente, qui si sta in ufficio dalle 9 alle 19, è molto impegnativo»

RAGAZZO: «Beh, mi aiuteranno i miei».


Il datore di lavoro evidentemente, pur nel suo intento di sfruttamento, è consapevole che con 250 euro al mese uno a Milano non ci si paga neanche l'affitto in una quadrupla: e vuole sapere come farà il povero cristo, una volta accettato lo stage, a pagarsi da vivere.
Il ragazzo lo rassicura: «Io lavorerò per te per la miseria che tu definisci "rimborso spese", ma in realtà a pagarmi saranno i miei genitori».

Quindi, le aziende ormai DANNO PER SCONTATO che le famiglie provvedano al sostentamento dei figli mentre loro, dal lavoro di quei figli, ci guadagnano montagne di soldi.
Il datore di lavoro # 1 corrisponde al 90% dei datori di lavoro italiani.

C'è un altro modo, però, di essere imprenditori in Italia. C'è un altro modo di trattare i giovani.

DATORE DI LAVORO # 2: «Bene, quindi lei sarebbe interessato a venire a lavorare per noi»
RAGAZZO: «Sì»

DATORE DI LAVORO # 2: «E quanti soldi le servirebbero per rendersi completamente indipendente?»

RAGAZZO (incredulo): «Eh?»

DATORE DI LAVORO # 2: «Sì. Vorrei sapere, per valutare il suo stipendio mensile, quale cifra lei ritiene sufficiente a coprire tutte le sue spese. In modo da poter smettere di chiedere soldi ai suoi genitori»

RAGAZZO (completamente spiazzato): «Beh, mi dia un attimo per calcolare...».

Il datore di lavoro # 2 assicura che le richieste sono sempre assolutamente ragionevoli: nessuno "spara" 3mila euro al mese, nessuno approfitta dell'offerta.
Dichiara anche, l'imprenditore virtuoso, di ritenere eticamente necessario poter retribuire adeguatamente una persona ormai adulta affinchè non sia più un ragazzo, dipendente dai genitori, ma possa diventare un uomo (o donna, ovviamente).

Il datore di lavoro # 2 è una rarità. Una mosca bianca nel panorama italiano. Ma io ve lo assicuro: esiste.

venerdì 9 novembre 2007

MAMMA E PAPÀ, AMMORTIZZATORI SOCIALI ALL'ITALIANA

I giovani italiani guadagnano troppo poco? Devono sorbirsi stage, co.co.pro. e altri contratti strani fin quasi alla soglia dei 40 anni? Difficilmente riescono ad abbattere, nelle retribuzioni, il muro dei 1000 euro al mese? Ci pensano mamma e papà. Questa è la salvezza - e insieme il dramma - dei giovani italiani.
Altrove è inconcepibile che un genitore paghi l'affitto, o faccia periodicamente la spesa, a un figlio trentenne. Qui in Italia invece è più o meno la regola: se non succede, spesso è perchè il figlio rimane direttamente a vivere nella casa paterna... guadagnandosi l'epiteto "bamboccione" di cui abbiamo già parlato altrove su questo blog.
La questione ricorda l'antico dilemma: «E' nato prima l'uovo o la gallina?». I genitori continuano a mantenere i figli così a lungo perchè i figli guadagnano troppo poco, oppure - dato che tanto i genitori elargiscono quattrini ben oltre il periodo di formazione - i figli non pretendono dai datori di lavoro retribuzioni adeguate?
Cerco di spiegare meglio il dubbio sul quale ragiono da qualche tempo. Se per assurdo tutti i genitori italiani si mettessero d'accordo e dicessero: «Caro figlio, dopo la laurea non ti dò più una lira, arrangiati di conseguenza», secondo voi ci sarebbero tanti ragazzi (me per prima, eh - non mi voglio autoassolvere) disponibili a fare stage gratuiti o a lavorare a progetto per 800 euro al mese?
Io credo di no. Se cambiasse la mentalità finiremmo per comportarci come i nostri coetanei inglesi o americani, che dopo l'università a qualcuno che propone «Lavora da me, però ti pago una miseria» ridono in faccia. Perchè con i soldi ci si devono pagare vitto, alloggio, annessi e connessi: senza «aiutini» dai genitori.
Infatti, lì c'è ben poca gerontocrazia: se uno è capace di fare il suo mestiere viene pagato bene, anche se ha solo 25 anni. Qui invece se chiedi uno stipendio adeguato a quell'età vieni guardato come un folle: «ma come, e l'umiltà? ma come, e la gavetta? ma come, non capisci che prima devi dimostrare [per mesi se non per anni, aggiungo io mestamente...] di essere capace?».
Così i genitori diventano gli ammortizzatori sociali primari del mondo del lavoro italiano. Se gli stipendi dei figli sono troppo bassi, loro intervengono ad integrarli. E i datori di lavoro una volta ancora si sfregano le mani: così possono continuare a pagare i 25-30enni la metà di quel che dovrebbero. E senza paura che muoiano di fame o che dormano al freddo.

Vedo dal report di Shinystat che su questo blog si collegano spesso persone dall'Inghilterra, dall'America, dai Paesi Bassi, dalla Spagna. Anche a loro chiedo: raccontate come va da quelle parti. Il confronto col resto del mondo è importante, se non vogliamo rimanere incastrati in questo modo italiano che sta dimostrando di funzionare poco e male.

sabato 3 novembre 2007

CERCATE BRONTOLO? MI SPIACE, NON ABITA QUI

Prendo spunto da uno scambio di opinioni avvenuto su questo blog tra Angela Padrone e Mimi, nell'ambito del post "OPPORTUNITA' O SFRUTTAMENTO? QUALCHE DOMANDINA".
Scriveva Angela, giornalista e autrice del libro «Precari e contenti»: «Avete di fronte un mercato del lavoro difficile, sì, non lo conquisterete lamentandovi e pretendendo, ma solo dimostrando di essere meglio di qualcun altro».
Ed ecco la risposta di Mimi: «Non capisco perché, nonappena si apre il dibattito sugli stage, ci si debba sentir dire che siamo dei brontoloni. Dal punto di vista lavorativo non mi è stato mai regalato niente e non mi sento rappresentata dal sindacato. Devo stare zitta e ringraziare se non vedrò un contratto nei prossimi sei anni? Proprio perché sono meglio di qualcun altro, e lo sto dimostrando nel lavoro, credo di aver diritto a rivendicare trattamenti più dignitosi».
Io penso che accusare chi denuncia un sistema iniquo - e ragiona sui modi per cambiarlo - di «volersi solo lamentare» sia troppo facile. E credo che Brontolo non abiti in questo blog. Qui non ci si autocompatisce: qui si prova a denunciare una situazione, purtroppo ormai diffusissima, di sfruttamento sistematico della manodopera più qualificata, quella che io chiamo «cervellodopera».
Angela Padrone ha ragione quando scrive che «anche tra i laureati ci sono tanti che sono presuntuosi, ignoranti, non si mettono in sintonia con chi hanno di fronte». Ma ciò non vuol dire che un datore di lavoro abbia il diritto di sfruttarli, assumendoli con ridicoli contratti di stage e pagandoli niente, o 200-300 euro al mese (che poi in sostanza è uguale a niente).
Ogni persona ha diritto di essere retribuita per quello che fa, per il tempo che dedica al lavoro, per i soldi che fa guadagnare alla sua azienda. Il lavoro gratuito ha altri nomi: volontariato, hobby, beneficienza.
Aggiungo che per vedere se una persona è capace di svolgere una determinata mansione, già esiste il periodo di prova all'interno dei normali contratti. Oppure esiste il «l'altro modo» di utilizzare gli stage: pagando bene gli stagisti, prendendoli solo in una reale prospettiva (non «garanzia», ma perlomeno «prospettiva») di assunzione, rispettando la loro (spesso già formata) professionalità.
La situazione è iniqua, e va cambiata. Ma se nessuno lo dice, prendendosi il rischio di essere accusato di brontolare e di non dimostrarsi sufficientemente umile, ci sono ben poche possibilità che cambi da sola.

giovedì 1 novembre 2007

FLESSIBILITA' VS PRECARIATO: LA SOTTILE LINEA ROSSA

Lo diciamo chiaro una volta per tutte. C'è una linea rossa che divide la flessibilità dal precariato. E' sottile, a molti fa comodo fingere di non vederla, ma c'è.
Ci sono due modi per chiamare quelle forme di lavoro atipico («contratti strani», li ho ribattezzati io) in cui il lavoratore viene utilizzato per brevi periodi, magari a singhiozzo o «a chiamata», senza garanzie per il futuro. Quando si vuole parlarne in termini positivi si usa «flessibilità»; invece quando si vuole porre l'accento sugli «effetti collaterali» negativi di queste tipologie di contratto si parla di «precariato».
Dove sta la differenza? Nel denaro.
E' una semplice, banale, importantissima questione di soldi.
Il lavoratore flessibile è quello che non patisce la mancanza di un contratto stabile. Guadagna molto, o quantomeno abbastanza, e quindi gli sta bene così. Non teme di «ritrovarsi in mezzo a una strada», con il suo conto in banca è in grado di far fronte a qualche periodo di inattività o alle spese impreviste che possono derivare da una malattia, da una spesa straordinaria del condominio, o ad altre sorprese della vita che comportino esborso repentino di denaro.
Il lavoratore precario non sa come arrivare alla fine del mese. Quasi sempre guadagna meno di mille euro al mese. Vive con angoscia il momento della scadenza del contratto, non sa cosa ne sarà del suo futuro. Spesso per vivere da solo deve ricorrere al sostegno economico dei genitori, che vanno a «integrare» il suo stipendio troppo basso. Se per cocciutaggine o fortuna riesce a pagarsi vitto e alloggio da solo, comunque è consapevole che qualsiasi spesa imprevista lo atterrerebbe, e che in quel caso dovrebbe necessariamente rivolgersi ai suoi per fronteggiarla. La femmina (specie ultra-trentenne) di lavoratore precario, poi, è tristemente combattuta tra la voglia di fare un bambino e la consapevolezza che col suo contratto non avrà né accesso a tutti gli aiuti su cui invece può contare una donna assunta a tempo determinato o indeterminato, né abbastanza soldi per fregarsene di quegli aiuti e farsi una «maternità indipendente».
Solo che di lavoratori flessibili in Italia ce ne sono ben pochi. Lavoratori precari, una marea. E' qui che sta la (solita) anomalia italiana. Altrove se non vuoi dare garanzie a chi lavora per te, lo devi (DEVI) pagare di più. In Italia, invece, lo puoi pagare infinitamente meno. E quello deve pure stare zitto, perchè altrimenti si trova disoccupato. Nel silenzio assordante dei sindacati, che tutelano (e ben oltre il ragionevole) solo quelli con contratti meno strani.